YVES-NOËL GENOD, O DELLA LIQUIDITA’ DEL FUMETTO
A proposito di Elle court dans la poussière, la rose de Balzac
“Porco Dio, porca la Madonna”. Sì, potrebbe sembrare una provocazione gratuita, frontale, di quelle con le quali è facile prenotare un posto in prima fila all’inferno, ovvero l’espulsione dall’ultima edizione del Grande Fratello. Perché la bestemmia, oggi, è stata degradata, diventando nient’altro che l’infrazione delle regole di un video-game. Oppure, per chi crede ancora ad una visione te(le)ologica della società (e se Dio fosse un video-game?), secondo la quale le regole si trasformano in leggi, la stessa provocazione si tramuterebbe paradossalmente nel suo opposto, cioè nell’affermazione decisa dell’esistenza di Dio. Ci sarebbe poi da chiedersi se nel nostro riferire “il morto orale”, quel Dio richiamato sia maiuscolo o minuscolo, il che complicherebbe ulteriormente la questione, ma su questo vi rimanderei alla tomba di Artaud.
Il fatto è che quando nel bel mezzo di Elle court dans la poussière, la rose de Balzac, di Yves-Noël Genod, si sente dire, nell’inequivocabilità del silenzio, “Porco Dio, porca la Madonna”, questo appare come il residuo di una condizione di equivalenza, come un detrito tra i detriti che invadono in maniera volutamente disordinata lo spazio dell’azione scenica. Senza alcuna enfasi, e con l’indifferenza che si riserva alla registrazione e successiva catalogazione oggettiva dei fatti, la bestemmia acquista una sinistra valenza ludica: non un’infrazione, appunto, bensì l’ulteriore passaggio di un gioco estremo, senza regole chiare, costruito essenzialmente senza fuochi, per punti di fuga.
Non è un caso che Elle court dans la poussière, la rose de Balzac non abbia inizio, e tutto sommato neanche una fine. Non fraintendetemi, però. Non voglio dire che l’azione sia in progress o, ancor peggio, celi chissà quali interpretazioni esoteriche. Piuttosto si affaccia verso lo spettatore con l’inganno, come fanno i bambini quando per gioco si nascondono sotto il letto dei genitori. Ad un certo punto ci si sente osservati, e al contempo osservatori, e solo allora si ha la consapevolezza di essere partecipi di qualcosa che accade davanti ai nostri occhi. E così la fine, che non ha bisogno di essere annunciata da un climax, ma si estingue con la medesima leggerezza con cui tutto è cominciato. Semplicemente finendo.
Ciò che avviene nel mezzo (ma anche il mezzo è, in fondo, abolito) appartiene al superamento della logica. Ma, ancora una volta, non fraintendetemi, vi prego. Non mi appello alla logica scientifica con cui è banalmente nominato il senso delle cose che accadono nel mondo, quanto alla retorica dell’efficacia con cui spesso, per comodità di interpretazione, si tende a leggere un evento scenico. In questo caso, l’unica, essenziale logica messa in moto da Genod è quella della circolarità con cui il gioco esprime se stesso, accogliendo di fatto un tempo e un luogo senza compromessi di struttura. L’imperfezione e la dignità eroica delle figure, la fragilità e la precisione della composizione, il gusto a tratti effimero e tuttavia denso di riferimenti, fanno parte di un unico travestimento, che accoglie dentro di sé le varianti contraddittorie a cui è sottoposta la creazione.
Se, come sono persuaso, l’arte di quello che fino al secolo scorso veniva genericamente definito “teatro” sta lentamente cedendo il posto ad una politica dell’apparizione che ha nella manipolazione della presentazione il suo nodo teoretico cruciale, il lavoro di Genod si situa all’interno di questo osservatorio privilegiato sul corpo. Uno sguardo che per diretta reciprocità diviene il termometro, e insieme lo specchio, per codificare una realtà vissuta per molti aspetti nella medesima prospettiva di “liquidità” indicata da Zygmunt Bauman, per la quale la vita e i modi attraverso cui questa si manifesta non si consolidano più in procedure fisse e abitudinarie, producendo una perenne casistica di nuovi inizi.
Attori – uso tale parola per convenzione – di questo vagare intorno all’azione, Marlène Saldana, lo stesso Genod e il piccolo Marcus Vigneron-Coundray, agiscono dentro una struttura aperta, direi per “numeri”, o attrazioni. Con apparente casualità, quasi fossero le tessere di uno stralunato varietà domestico. Si dispongono nella percezione dello spettatore come uno sciame performativo che ha eretto a proprio sistema di riferimento l’ironia barbarica del fumetto. La rappresentazione della realtà fa da tiro a segno: i bossoli di questa squinternata sparatoria cadono alla rinfusa nello spazio scenico, a testimoniare una battaglia in atto, combattuta con la violenza liberatoria di un cartoon.
Quello che resta, non è un fatto, ma una teoria escrementizia di segni, oggetti, ombre, allusioni, figure, parole, distese nello spazio-discarica della percezione teatrale. Una vibrazione dell’esperienza che, ancora una volta, si incunea come una piccola spina nel fluire ematico della memoria, fino a riversarsi “senza senso” nell’ampolla rettale della coscienza. Il tutto con una tonalità naive, la stessa che spinge un bambino a molestare l’attenzione degli adulti, e che dona al lavoro una luccicanza rara e straniante.
E’ esattamente questa polarità “regressiva” a dominare la scena, dove l’enfant terrible Marcus la fa da padrone. E’ lui a dettare il ritmo, a confezionare gag irresistibili, a definire con la propria immediata “spontaneità” le coordinate di un’azione sempre in bilico tra svagato divertissemant e rigoroso sprofondamento performativo. Attimi e sequenze che emergono come schegge da un tempo in cui lo spettatore attende divertito la prossima, ulteriore freakeria di turno. Ecco allora alternarsi senza soluzione di continuità elementari giochi di prestigio a ostentate parodie, parrucche e personaggi eccessivi, diabolici, estratti da un immaginario rubato senza ritegno al cinema horror di serie C, al manga da baraccone o all’improbabile verità della tradizione patafisica. O ancora brevi sequenze coreografiche, che immediatamente lasciano il campo a vuoti interminabili se articolati dentro una qualsiasi produzione spettacolare regolata dall’ansia dell’attenzione.
Sarà forse solo una suggestione, che però rivendico per strane corrispondenze di pensiero, ma quell’acqua che a un certo punto inonda lo spazio scenico, selvaggiamente spruzzata dal bambino su se stesso e sugli altri, diviene la metafora fisica, “liquida” di questo gioco con cui tutti i protagonisti si cimentano, compreso un cane che, casualmente in platea, non resiste al richiamo ludico della scena. Una scena-superficie in cui scivolano le fragilità di un mondo ancora – per fortuna – imperfetto. E per questo divertente.
Fabio Acca